IL PRETORE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nel  procedimento  penale  di
 cui  sopra,  a  carico  di Toscano Giuseppe, Morisco Giuseppe, Fedeli
 Fabio, Ferrari Ferido, Zappalorti Fabio, Lonzi Franco, Magro Marilyn,
 imputati tutti del reato di cui agli artt. 21 e  25  della  legge  n.
 319/1976, unitamente ad altre fattispecie penali, osserva che il p.m.
 di  udienza  ha  richiesto  pronunzia  di  questo  pretore  in ordine
 all'ipotesi  di  non  manifesta  infondatezza  della   questione   di
 legittimita' costituzionale dell'art. 3 del d.-l. 16 gennaio 1995, n.
 9,  motivando  che la norma citata si pone in contrasto con gli artt.
 3, 9 e 10 della Costituzione.
    Cio' posto, il pretore  osserva  che  la  richiesta  del  p.m.  e'
 fondata  e  si ritiene, pertanto, di dover dichiarare rilevante e non
 manifestamente infondata, per violazione degli artt. 3, 9  e  10,  32
 della  Costituzione,  la  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art. 3 del d.-l. 16 gennaio 1995, n.  9,  il  quale,  nella  sua
 integrale  stesura,  prevede  la  modifica  globale  del  terzo comma
 dell'art. 21 della legge  n.  319/1976  e,  sospendendo  il  presente
 procedimento,   dispone   la   trasmissione  degli  atti  alla  Corte
 costituzionale.
    Il pretore rileva che gia' in precedenza,  con  ordinanze  dell'11
 ottobre  1994 e del 28 ottobre 1994, nei procedimenti penali a carico
 di Ferraiolo Alessandro e  Gelli  Paolo  e  di  Innocenti  Giancarlo,
 imputati  del  reato  di  cui all'art. 21 della legge n. 319/1976, il
 pretore di Grosseto si e' pronunziato in ordine  all'ipotesi  di  non
 manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale
 dell'art.  3  del  d.-l.  19 settembre 1994, n. 537, con trasmissione
 degli atti alla Corte costituzionale, per le argomentazioni  in  esse
 ordinanze esposte.
    Considerato  che  il citato decreto-legge, decaduto per non essere
 stato convertito in legge, e' stato sostituito integralmente e  senza
 alcuna  modifica  per quanto concerne l'indicato art. 3, con il d.-l.
 16 gennaio 1995, n. 9, art. 3.
    Che,  in  merito  a  quest'ultimo   decreto-legge,   con   recente
 ordinanza,  in  data  31  gennaio  1995,  il  pretore  di Grosseto ha
 sollevato ugualmente la  questione  di  legittimita'  costituzionale,
 cosi' come con ordinanze di questo pretore, in data 9 febbraio 1995.
    Rilevato  che  le  problematiche applicative appaiono strettamente
 collegate al caso in esame e le argomentazioni esposte  nell'indicata
 ordinanza  del 31 gennaio 1995, vanno condivise e, quindi, ribadite e
 richiamate integralmente con la presente ordinanza.
    Le argomentazioni essenziali  poste  a  sostegno  della  sollevata
 questione costituzionale, riflettono quanto in appresso riportato.
    "Quanto  alla  disciplina  degli  scarichi,  la legge prescrive in
 particolare che: a) gli scarichi degli insediamenti produttivi  (art.
 12  e  art.  13)  devono  rispettare  direttamente  le tabelle. Fanno
 eccezione i soli scarichi gia' esistenti al 13 giugno 1976  (data  di
 entrata  in  vigore  della  legge)  immessi  in  pubbliche  fognature
 provviste di impianto di depurazione  funzionante.  In  tal  caso  il
 comune   che   gestisce   l'impianto  puo'  prescrivere  limiti  piu'
 permissivi; b) gli scarichi degli insediamenti  civili  in  pubbliche
 fognature   sono  sempre  ammessi  purche'  osservino  i  regolamenti
 comunali  (art.  14  primo  comma);  c)  gli  scarichi  da  pubbliche
 fognature  (art. 14, secondo comma) sono disciplinanti dalle regioni,
 le quali devono tener  conto  delle  direttive  statali  (emesse  con
 delibera  del  30  dicembre  1980),  dei limiti delle tabelle e delle
 situazioni locali.  In  particolare,  le  citate  direttive  statali,
 mentre  sono  molto  elastiche  e  nulla  di  preciso  prescrivono in
 relazione a questi insediamenti civili (salvo la  predisposizione  di
 incentivi per favorirne l'allaccio in fogna), stabiliscono invece per
 le  pubbliche  fognature  che  le regioni non possono mai derogare ai
 limiti piu'  restrittivi  previsti  dalle  tabelle  in  relazione  ai
 parametri   di   natura   tossica,   persistente   e  bioaccumulabile
 (specificati in un  elenco)  e  che,  quanto  agli  altri  parametri,
 deroghe  (permissive)  alle  tabelle  sono consentite solo quando 'la
 presenza degli scarichi provenienti da  insediamenti  produttivi  non
 sia  tale  da  conferire  al  liquame  in  ingresso  all'impianto  di
 depurazione caratteristiche qualitative  sostanzialmente  diverse  da
 quelle  attribuibili  agli  scarichi provenienti da soli insediamenti
 civili'. Solo quando, cioe', gli scarichi industriali siano di minima
 entita' o siano stati efficacemente pretrattati a monte.
    Quanto alle sanzioni, la omessa  richiesta  di  autorizzazione  e'
 punita  alternativamente  con  l'ammenda  da  L.  1.500.000 a lire 10
 milioni o con l'arresto da due mesi a due  anni  (art.  21,  primo  e
 secondo  comma),  mentre,  per  il superamento dei limiti, l'art. 21,
 terzo comma, prevede che 'si applica sempre la pena dell'arresto  (da
 due  mesi a due anni) se lo scarico supera i limiti di accettabilita'
 di cui alle tabelle allegate alla legge, nei rispettivi limiti e modi
 di applicazione', con la ulteriore pena accessoria della  incapacita'
 di contrattare con la pubblica amministrazione.
    In  conclusione,  la  legge  Merli basa la sua operativita' su tre
 ordini di obblighi, tutti penalmente  sanzionati  e  tutti  fra  loro
 connessi,  nei  confronti  dei  titolari  di  scarichi:  l'obbligo di
 richiedere l'autorizzazione, l'obbligo di rispettare le  prescrizioni
 dell'autorizzazione  e  l'obbligo  di  rispettare  limiti prefissati,
 direttamente o indirettamente, dalla legge.
    Con riferimento a tale quadro normativo venivano emessi una  serie
 di decreti-legge l'ultimo dei quali redatto dal governo Berlusconi il
 16  gennaio  1995 con il n. 9. Le principali modifiche apportate alla
 legge Merli dal citato decreto sono:
       A)  In  relazione all'obbligo di richiedere autorizzazione dopo
 18 anni, si riaprono i termini per tutti gli inadempienti e,  per  il
 passato,  si  riazzera  tutto  e  si estinguono i reati gia' commessi
 purche' i contravventori presentino, oggi, domanda di  autorizzazione
 in  sanatoria entro 90 giorni dalla legge di conversione e paghino da
 500.000 a 3 milioni (art. 7);
       B) Quanto ai limiti da rispettare nello scarico, scompaiono una
 serie di obblighi  (validi  a  livello  nazionale).  Ad  esempio  gli
 scarichi  da  pubbliche  fognature e quelli degli insediamenti civili
 non  in  pubbliche  fognature  devono  rispettare  limiti  non   piu'
 prefissati  ma rimessi alla discrezionalita' di regioni o comuni, che
 possono  tranquillamente  derogare  alle  tabelle;   anche   se   per
 l'immediato  e fino a nuove direttive, 'restano ferme le prescrizioni
 adottate anteriormente ed in particolare quelle di cui alla  delibera
 del 30 dicembre 1980'. Di modo che vengono penalizzate le regioni che
 a   questa   delibera   si  erano  adeguate  e  vengono  premiate  le
 inadempienti;
       C) La inosservanza dei limiti tabellari e  non  e'  punita,  di
 regola,  non  piu'  con l'arresto ma con sanzione alternativa. Quanto
 alle ulteriori conseguenze per il superamento di limiti, venuta  gia'
 meno  con  il  nuovo  codice  di  procedura penale la possibilita' di
 custodia cautelare in caso di recidiva,  il  decreto-legge  in  esame
 cancella della legge Merli anche la pena accessoria della incapacita'
 di contrattare con la pubblica amministrazione;
       D)  Analogamente,  la  inosservanza  delle  prescrizioni  delle
 autorizzazioni allo scarico, sanzionata penalmente dalla legge  Merli
 con  arresto  o ammenda, comporta, con il decreto-legge in esame solo
 una sanzione amministrativa da 2 a 24 milioni.
    In conclusioni, limiti certi vengono sostituiti da limiti  rimessi
 alla  discrezionalita'  quasi  totale  di  regioni  e  comuni, con il
 pericolo di gravi disparita' di trattamento e di vuoti di tutela;  in
 piu',   la   inosservanza   di  questi  limiti,  con  il  conseguente
 inquinamento, di regola puo' comportare o una sanzione amministrativa
 pecuniaria ovvero una ammenda oblabile  senza  vero  rischio  penale.
 Questo   rischio,   paradossalmente,   resta   solo   per  violazioni
 soprattutto formali e 'burocratiche' (quali la  omessa  richiesta  di
 autorizzazione  allo  scarico).  Ma, comunque, per esse dopo 18 anni,
 scatta una  totale  sanatoria  rispetto  al  passato,  premiando  gli
 inottemperanti e penalizzando chi ha rispettato la legge.
    Appare  evidente  che  il d.-l. n. 9/1995, scardina, o quanto meno
 depotenzia in modo rilevante, tutti e tre i capisaldi su cui fonda la
 legge  Merli  (obbligo  di  richiedere  autorizzazione,  obbligo   di
 rispettare   le   prescrizioni   dell'autorizzazione  ed  obbligo  di
 rispettare limiti prefissati).
    Per tutto quanto sopra detto il decreto-legge in esame, come  gia'
 rilevato  per  i precedenti (cfr. l'ord. del pretore di Vicenza del 2
 agosto 1994, pretore di Terni 27 settembre 1994, pretore di  Grosseto
 11  ottobre  1994, pretore di Grosseto 28 ottobre 1994) e lucidamente
 sostenuto in scritti (G. Amendola) viola il principio di  uguaglianza
 sancito  dall'art.  3  della  legge  fondamentale dello Stato. Appare
 evidente che, dopo le modifiche introdotte dal  decreto  nel  sistema
 sanzionatorio   della   legge   Merli,   la  violazione  di  obblighi
 'burocratici' e formali, certamente non  ricollegabili  ad  un  danno
 all'ambiente   quali  la  omessa  richiesta  di  autorizzazione  allo
 scarico, viene punita, ai sensi dell'art. 21, primo comma, come reato
 con la pena dell'arresto o dell'ammenda; mentre la fattispecie di ben
 maggiore gravita'  sostanziale,  quale  l'inquinamento  dell'ambiente
 provocato con il superamento dei limiti, prevista dall'art. 21, terzo
 comma, e proprio per questo sanzionata fino al decreto-legge in esame
 con  la  pena  piu'  severa  di  tutta  la  legge (solo arresto, pena
 accessoria),  viene  punita  come  illecito  amministrativo  con  una
 sanzione  pecuniaria  ovvero,  con la pena alternativa dell'ammenda o
 dell'arresto (con tutte le conseguenze  piu'  favorevoli  che  questo
 comporta),  insomma,  in  tal modo, fatti gravi vengono illogicamente
 puniti in modo molto piu' benevolo di fatti  certamente  piu'  lievi.
 Peraltro,  in  tal  modo  si  introduce una disparita' di trattamento
 anche rispetto al  sistema  complessivo  della  normativa  di  tutela
 ambientale che si e' rappresentato in precedenza (cfr. ad esempio, il
 d.P.R.  24  maggio  1988,  n.  203,  sull'inquinamento atmosferico da
 industrie), ed in particolare con le altre  leggi  che  si  occupano,
 come  la  Merli, di inquinamento delle acque (quale la legge a difesa
 del mare n. 979 del 31 dicembre 1981  e  il  decreto  legislativo  27
 gennaio  1992,  n.  133,  sugli  scarichi di sostanze pericolose), le
 quali prevedono tutte sanzioni  penali  (e  non  amministrative)  per
 fatti   di   inquinamento   o   per   violazione  delle  prescrizioni
 dell'autorizzazione.
    In questo quadro, appare allora sufficiente richiamare la costante
 giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui il principio di
 eguaglianza consente al legislatore di  emanare  norme  differenziate
 riguardo  a  situazioni  obiettivamente diverse solo a condizione che
 tali norme rispondano all'esigenza che la disparita'  di  trattamento
 sia fondata su presupposti logici obiettivi, i quali razionalmente ne
 giustifichino  l'adozione (cfr. per tutta la sentenza n. 3 del 1963).
 Per cui la Corte ha dichiarato illegittime norme che  prevedevano  un
 trattamento  sanzionatorio  irrazionalmente  differenziato rispetto a
 quello previsto da altre fattispecie, diminuendo, ad esempio, la pena
 edittale minima per l'oltraggio (n. 341 del 1994);  ovvero,  con  una
 decisione  proprio  relativa all'art. 21 della legge Merli (ove si fa
 espresso riferimento anche al complesso della normativa  ambientale),
 eliminando   il  divieto  di  applicazione  di  sanzioni  sostitutive
 (sentenza n. 254 del 20-23 giugno 1994).
    Orbene, in questa sentenza, ricorda  la  Corte  che  si  viola  il
 principio  di eguaglianza qualora con leggi successive si dia vita ad
 un 'sistema normativo assolutamente squilibrato',  come  avviene,  ad
 esempio,  quando  si  favorisce  'chi  ha  posto  in  essere, fra due
 condotte gradatamente lesive dell'identico bene, quella connotata  da
 maggiore  gravita',  discriminando  invece chi ha realizzato il fatto
 che meno offende lo stesso valore  giuridico  (sentenza  n.  249  del
 1993)'.   Esattamente   quello   che  ha  fatto  il  governo  con  il
 decreto-legge in esame.
    Ma l'art. 3 della Costituzione risulta violato anche  sotto  altri
 profili.   La  nuova  formulazione  dell'art.  14,  concedendo  ampia
 discrezionalita' alle regioni per la fissazione di  limiti  comporta,
 con   ogni   evidenza,  la  possibilita'  che  vi  siano  marcate  ed
 irrazionali disparita' di trattamento da regione a regione.
    In   detto   svuotamento  sanzionatorio  di  uno  dei  reati  piu'
 importanti in materia di  tutela  ambientale  (forse  il  reato  piu'
 importante  in  assoluto  in  materia  di inquinamenti) si profila ad
 avviso dello scrivente pretore, una violazione del disposto dell'art.
 9,  secondo  comma,  della  Costituzione,  laddove  la   tutela   del
 paesaggio,  inteso  secondo  le piu' recenti pronuncie della Corte di
 cassazione e della Corte costituzionale, non deve essere inteso  solo
 come  bellezza  estetica  da  cartolina  ma come ambiente naturale in
 senso  lato,  quindi   comprensivo   anche   degli   inevitabili   ed
 inscindibili aspetti bionaturalistici.
    Per  gli  stessi  motivi  esposti  in  relazione  all'art. 9 della
 Costituzione, si ritiene che la norma in esame si ponga in  contrasto
 anche con l'art. 32 della carta costituzionale.
    Infatti,  nel  concetto  di  tutela  della  salute  come principio
 costituzionalmente garantito deve, per forza di cose  ricomprendersi,
 il  piu'  vasto  concetto  della  salute  pubblica  nel  senso  delle
 salubrita' dell'ambiente naturale ed  urbano  ove  ciascun  cittadino
 vive.  Il  diritto alla salute inteso anche come diritto all'ambiente
 salubre e' stato ormai ripetutamente accertato in giurisprudenza  (si
 veda  per  tutte  la famosa sentenza delle sezioni unite n. 517 del 6
 ottobre 1979, nonche' la Corte costituzionale  in  data  31  dicembre
 1987, n. 641, ed in data 16 marzo 1990, n. 17). E' fuor dubbio che la
 diminuita,  ed  anzi  per  certi  versi  di fatto del tutto caducata,
 possibilita' di intervento deterrente/punitivo in sede di illeciti da
 inquinamento  idrico  crea   i   presupposti   per   una   evoluzione
 incontrollata  del  fenomeno,  incoraggiata  dall'abbassamento  della
 guardia in sede di controlli di P.G.  e  possibilita'  di  intervento
 processuale; e tutto questo si traduce in via diretta in un danno per
 la  salute  e  salubrita'  pubblica  in  un  ambiente che resta cosi'
 maggiormente ed incontrollatamente esposto al degrado inquinante.
    Va ancora rilevato che la norma in  esame  pare  porsi  in  totale
 contrasto   con  gli  obblighi  che  derivano  al  nostro  Paese  per
 l'appartenenza all'Unione europea. Gia' due volte la Corte europea di
 giustizia ha condannato il nostro  Paese  per  il  contrasto  tra  la
 'legge  Merli'  e  le direttive comunitarie, tra l'altro anche per la
 permissivita'  del  sistema  autorizzatorio   previsto   e   per   la
 'insufficienza'  delle  sanzioni  penali  previste  dall'art.  22  in
 relazione alla inosservanza  delle  prescrizioni  dell'autorizzazione
 (Corte  di  giustizia  28 febbraio 1991 e 13 dicembre 1990). La sopra
 esposta generale regressione sanzionatoria creata  dal  decreto-legge
 in  esame  concretizza  di  conseguenza  una ulteriore evoluzione del
 grado di inadempienza italiana verso le  direttive  CEE  e  verso  le
 sentenze della Corte europea.
    Peraltro  il  decreto  stesso,  si  pone in evidente contrasto con
 direttiva CEE n. 271 del 21 maggio 1991 sul trattamento  delle  acque
 reflue  urbane,  che  lo  Stato italiano avrebbe dovuto gia' recepire
 entro lo scorso giugno  1993  e  che  fissa  obblighi  e  limiti  ben
 precisi,  con  ben  pochi  margini  di discrezionalita' specie per le
 'aree sensibili'. E del resto il contrasto e'  apparso  evidentemente
 gia'  in  sede di redazione del testo in esame se il decreto richiama
 espressamente nell'art. 1  la  direttiva  91/217/CEE  del  21  maggio
 1991".
    "Ove  il  decreto  9  dovesse  essere  convertito in legge, le sue
 prescrizioni si  applicheranno  dunque  finche'  non  si  sara'  data
 attuazione  alla  citata direttiva; attrazione che dovrebbe avvenire,
 secondo la legge comunitaria 1993 n. 146 del 22 febbraio 1994,  entro
 il  marzo  1995  e,  peraltro,  con  rigidi  principi  di  attuazione
 predeterminati dal Parlamento (art.  37,  primo  comma)  in  evidente
 contrasto  con  la elasticita' e genericita' del decreto in esame, il
 che provochera' ulteriore confusione ed incertezza del diritto.
    Ed in ogni caso va  sottolineato  che,  secondo  la  citata  legge
 comunitaria,  il  Governo dovrebbe dare attuazione a questa direttiva
 provvedendo allo 'adeguamento della normativa vigente alla disciplina
 comunitaria,  apportando  alla  prima  ogni  necessaria  modifica  ed
 integrazione  allo  scopo  di definire un quadro omogeneo ed organico
 delle disposizioni di settore' (art. 36, lettera c)).
    Dato il carattere regressivo in sede sanzionatoria del decreto  n.
 9/1995,  ritiene lo scrivente che si appalesa un contrasto con l'art.
 10 della Costituzione per mancata conformazione alle citate norme del
 diritto internazionale.
    Da quanto  sopra  esposto  emerge  la  rilevanza  della  sollevata
 eccezione  sul  caso  in esame, ove risulta contestato il superamento
 dei limiti tabellari, con le differenze  normative  richiamate  e  le
 diverse strategie processuali percorribili da parte della difesa, sia
 in caso di rigetto che di accoglimento della eccezione".